L’Oasi iniziò a nascere nel 1973, quando Antonia e Harry Salamon acquistarono il castello di Sant’Alessio e quel poco di terra che gli sta intorno tuttora.
A parte la passione, un po’ scientifica e un po’ sentimentale per l’architettura medievale, c’era il progetto, accarezzato dall’infanzie e dall’infanzia preparato, di creare un allevamento di specie in pericolo, per ripopolarne la natura.
Antonia e Harry avevano una preparazione scientifica e una cultura liberale e pragmatica. Conoscevano la situazione della natura -in Italia e non solo- ed erano convinti che, per salvarne il salvabile, l’uomo dovesse darsi da fare.
La terra acquistata era un grande campo di erba medica. Non c’era un solo albero, un maleodorante rigagnolo -chiamarlo fogna sarebbe fargli un complimento- la attraversava tutta. Quel che oggi si vede è stato tutto costruito dopo.
Non avevano tenuto conto, per giovanile ingenuità, che una piccolissima ma determinata parte dell’umanità si stava costruendo una specie di religione ambientale, fatta di conoscenze naturalistiche poco masticate -per esempio la convinzione che la natura sarebbe in un equilibrio distrutto dalla specie umana-di ignoranza dell’irreversibilità delle alterazioni compiute, di ossessione per la propria salute, di masochistico odio per l’umanità e per le sue conquiste, di ignoranza di ciò che era la vita umana solo un paio di generazioni or sono, il tutto condito da una buona dose di intolleranza e fomentato, già allora, dalla burocrazia (che voleva appropriarsi del nascente settore) e da un associazionismo assetato di soldi e di potere e cui formicolavano le mani dalla voglia di farsi parte politica.
Erano gli anni in cui il Falco pellegrino stava scomparendo dall’Europa e dal Nordamerica. Si pensava che il Cavaliere d’Italia -che in realtà stava solo compiendo uno dei suoi periodici spostamenti- fosse in pericolo d’estinzione. La Cicogna bianca mancava dall’Italia da cinque secoli e i pochi esemplari che transitavano sul nostro Paese, durante la migrazione stagionale, finivano immancabilmente imbalsamati (molti agricoltori tenevano il fucile sul trattore). Molte specie, ora protette, erano ancora sulla lista dei “nocivi”.
Queste furono quindi le prime tre specie cui ci dedicammo (ebbene, sì, siamo ancora qui e siamo noi a scrivere questi appunti). Nel 1977, copiando fedelmente le strutture inventate da Tom Cade all’Università Cornell, costruimmo l’allevamento dei Falchi pellegrini, ancora esistente, rimasto per oltre vent’anni la più importante struttura del genere in Europa. Creammo una colonia di Cavalieri d’Italia, con esemplari importati dalla Tunisia. Nel 1981 Renato Massa, il magnifico naturalista, mente scientifica della rivista Airone, ebbe a dire “credevo che l’allevamento dei Cavalieri d’Italia fosse una bufala inventata da Salamon, quando mi trovai a camminare fra i nidi, numerosi come fossero galline”. Una frase che ci è rimasta nel cuore. Nel 1984 arrivammo ad allevarne e liberarne 127. Dall’allevamento di Bucci, a Faenza, ottenemmo le prime cicogne. Già nel 1977 un gruppo di sei fu reintrodotto in natura, quindici anni prima di ogni altro tentativo italiano. Le sei furono poi seguite da altre 500 o più.
Nel 1983, su iniziativa di Gabriele Caccialanza, dell’Università di Pavia, uno dei nostri mentori e protettori, incontrammo Roberto Gatti, Assessore all’Ambiente della Provincia di Pavia. Personaggio indimenticabile, tutto d’un pezzo, generoso e coraggioso. Comprese subito ciò che facevamo. Ci circondò da 100 ettari di fascia protetta, destinati a diventare 300. Ci fece dare perfino un po’ di soldi. Fu però presto cacciato perché non si piegava alle “logiche” della politica. I suoi successori ridussero i 100 ettari a 30.
Dopo molte incomprensioni -chiamiamole così- per iniziativa del compianto Alessandro Muzi Falconi, il neodirettore della Lipu, Marco Lambertini, ci venne a trovare. Poteva farlo, perché, in seguito alla scoperta della possibilità di determinare con certezza la maternità/paternità con il mezzo del DNA, avevamo, con l’aiuto di Vittorio Vigorita, un illuminato funzionario della Regione Lombardia, costretto le Autorità italiane a importare il metodo in Italia e ci eravamo prestati a fare da cavia.
Il perfetto risultato dell’esperimento aveva fatto dimenticare le polemiche e spianato la strada all’incontro. Lambertini era -è- un manager di cultura naturalistica, liberale e pragmatico. Trovammo rapidamente un accordo, per cui noi avremmo donato alla Lipu, che avrebbe provveduto alla reintroduzione in natura, nelle proprie Oasi, tutto il prodotto dei nostri allevamenti.
Lambertini, come molti uomini pragmatici, aveva in realtà una visione. Era convinto che le associazioni ambientaliste dovessero staccarsi dalla mammella dello Stato e dovessero abbandonare la strategia frignona e rissosa. E non dovessero ricorrere a scorciatoie di politica e di sottopolitica. Voleva che potessero vivere della propria professionalità: consulenze, gestioni e così via. Forse precorreva i tempi. Qualche anno dopo sarebbe andato in Inghilterra ad applicare le sue idee per Bird Life, la “mamma” della Lipu.
Pochi anni dopo, Renato Massa portò a visitare l’Oasi Sergio Frugis, il maggior ornitologo italiano del secolo scorso. Ne nacque un’amicizia fraterna, uno dei ricordi più preziosi che abbiamo. Sergio divenne il direttore scientifico di Sant’Alessio e lo rimase fino alla morte.
Nel 1993 la situazione generale dell’economia italiana attraversava uno dei suoi periodi di stanca. Ci trovavamo a un bivio: trovare altri soldi o ridurre l’impegno dell’allevamento, che costava allora ben oltre un centinaio di milioni all’anno, che non avevamo. Chiedemmo aiuto a Lambertini, che ci rivelò che le finanze della Lipu non stavano meglio delle nostre, ma ci suggerì di usare la sua strategia: trasformare l’Oasi in un servizio, aprendola al pubblico.
Oltre alla speranza di non dover rinunciare al discreto lavoro fatto fino allora, ci piaceva l’idea di condividere la bellezza di questo luogo, che era -e purtroppo è ancora- l’unico di questo genere in Italia.
La porzione naturale, che da un anno includeva la sola garzaia creata dall’uomo (Francesi e Americani ci provano da decenni, senza risultati), frequentata da innumerevoli esemplari selvatici, sia stanziali che, in inverno, di passo, ci stava però a cuore e temevamo che il flusso dei visitatori avrebbe allontanato alcune specie e, in particolare, gli Aironi.
Ci facemmo però coraggio. Scoprimmo presto, con qualche sorpresa, che gli animali selvaggi che popolavano il nostro ambiente tolleravano bene la presenza umana. Osammo, un passo alla volta, costruire camminamenti “segreti”, che consentono ora al visitatore di penetrare nel cuore della garzaia (così si chiama, in gergo, la nidificazione coloniale degli Aironi), o a pochi centimetri dal martin pescatore e dal picchio rosso, o a pochi metri dai fenicotteri, dalle cicogne, dai mignattai, dagli scoiattoli. Tutti liberi e selvatici, come decine e decine di altre specie. Ricorremmo agli specchi dei confronti all’americana per portarci, non visti, nell’intimità della vita degli uccelli.
Restava, in cattività, la rilevante popolazione di riproduttori, necessari ai nostri programmi di reintroduzione.
Cominciammo a creare voliere e altri spazi, dove la ricostruzione della natura non si limitasse, come nel cosiddetto bioparco, a uno statico diorama in cui una, sia pur meticolosa, ricostruzione ambientale fa soltanto da sfondo alla presenza degli animali. Al contrario, ricostruimmo, almeno in parte: le catene alimentari; le relazioni fra specie che in natura convivono e interagiscono; l’azione delle specie spazzine e predatrici. In altre parole, abbiamo replicato, per quanto possibile, quella situazione di apparente e temporaneo equilibrio che la semplificazione divulgativa chiama “equilibrio ecologico”.
Il risultato non è stato soddisfacente solo dal punto di vista didattico, ma ha dimostrato anche che, riportati a condizioni di vita finora ignote in cattività, i nostri animali recuperano i comportamenti originali: per esempio, la pesca in rastrello delle spatole, l’allevamento di una prole che, quando viene reimmessa in natura, non presenta i limiti fisici e culturali che abitualmente ne rendono difficile la reintroduzione.
Solo come esempio: nel febbraio del 1996 liberammo cinque Mignattai. A marzo essi avevano già nidificato, per di più nel centro della garzaia, cioè nel luogo che gli Aironi meglio difendono dai predatori. A maggio, da due nidi, si involavano sei giovani. Soggetti totalmente selvatici che, ad autunno arrivato, puntualmente migrarono: con le tecniche di reintroduzione tradizionali, un simile risultato richiede anni di attesa e la liberazione di qualche decina di esemplari .
Col passare del tempo, scoprimmo che la ricostruzione dei processi naturali andava perfino oltre quanto avevamo programmato e sperato. Valga anche qui un esempio. Nel 1998 il professor Riccardo Stradi dell’Università di Milano, il celebre studioso della pigmentazione degli uccelli, iniziò a lavorare su un pigmento (la guaranaxantina), appena scoperto nelle piume degli ibis scarlatti selvatici, in Sudamerica.
Il pigmento manca in tutti i mangimi artificiali e di conseguenza in tutte le popolazioni di ibis scarlatti esistenti in cattività… salvo da quella dell’Oasi di Sant’Alessio.
E abbiamo iniziato ad osservare fenomeni nuovi. Alleviamo le farfalle del genere Caligo in una serra popolata da alcune centinaia di specie diverse di piante tropicali. Ora, bisogna sapere che le Caligo sono, in Sudamerica il flagello principale delle coltivazioni di banani, divorati dal loro bruco. Abbiamo scoperto che vi sono piante affini al banano, in particolare alcune Strelitzie ed alcune Eliconie, che le Caligo preferiscono di gran lunga per l’allevamento delle larve. Se questa osservazione sarà, come probabile, reiterata in natura, ne nascerà una possibilità più economica e meno inquinante di lotta contro la farfalla: poche siepi di Strelitzie o Eliconie, potrebbero attirare le deposizioni di Caligo che verrebbero quindi aggredite con irrorazioni più mirate e meno abbondanti di insetticidi. Merita ricordare che gli antiparassitari impiegati nella bananicoltura, sono i principali responsabili della perdita della barriera corallina sulle coste caraibiche del Centro America.
Dalla ricostruzione ambientale controllata, potrebbe quindi nascere un nuovo ruolo per i parchi naturalistici: banco di studio e di prova, o, come aveva intuito Caccialanza fin dal 1975, terreno da esperimento di fenomeni naturali che in qualche caso potrebbero venire riapplicati alla natura selvaggia. Recuperando, in fondo, quel metodo sperimentale, o galileiano, che, in questo secolo, solo Konrad Lorenz ha applicato allo studio della psicologia e di parte delle scienze naturali.
Per gli ambienti naturali, popolati da animali selvatici, spontanei o immessi da noi (cicogna, cavaliere d’Italia, mignattaio, picchio, gru europea e così via), abbiamo invertito il concetto di parco faunistico: stiamo creando un reticolo di strutture in cui è il visitatore, ingabbiato e nascosto, ad avvicinarsi e poter spiare la natura selvaggia
Negli anni, abbiamo messo a punto un modello di giardino che unisce i paesaggi selvatici creati in America da Wolfgang Oehme e James van Sweden, alla “gabbia senza sbarre” di Tony Soper, aggiungendo a quest’ultima qualche marchingegno basato sulla conoscenza dei comportamenti animali e su tecnologie avanzate, in cui nostro figlio Giulio, ormai anima del parco tanto quanto noi, è maestro.
Si tratta di un giardino che consente a chi ama la natura di entrare in contatto ravvicinato con alcuni dei suoi fenomeni più segreti, senza sottoporsi ad addestramenti particolari e ad estenuanti attese, e senza possedere attrezzature e conoscenze che sono prerogativa di pochi professionisti. Fra l’altro, senza infastidire popolazioni di animali selvatici.
Oltre alle tre specie di cui abbiamo già parlato, riproduciamo e liberiamo sistematicamente: Spatola, Mignattaio, Scoiattolo rosso (quello autoctono europeo), Upupa, Martin pescatore, Gheppio, Tuffetto…
Altre specie allevate ma non ancora giunte alla fase del rilascio, se non occasionale, sono l’avocetta, il falco lanario.
Anatre insolite, come la moretta tabaccata , la pesciaiola, il codone, la marzaiola e l’alzavola, reintrodotte allo stato semibrado nell’Oasi, contribuiscono ogni anno, con piccoli numeri, al ripopolamento di queste specie.
E’ opportuno osservare che si è sempre trattato di esemplari già adattati alla vita selvaggia, le cui probabilità di sopravvivenza si possono confrontare con quelle degli esemplari selvatici adulti, mentre, nelle tecniche tradizionali di rilascio, si considera che dal 70 al 90 per cento dei soggetti liberati vada perduto. Il risultato stupefacente, ottenuto con le cicogne, ne è la prova più bella: noi stessi, basando i nostri calcoli sulla letteratura disponibile, avevamo ritenuto, nella nostra relazione alla provincia di Pavia (1983), che per ottenere buoni risultati sarebbe stato necessario liberare dieci o più volte il numero di cicogne poi effettivamente reintrodotto.
L’altro aspetto, cui avevamo lavorato fin dal 1973, di cui abbiamo in parte già parlato, era stata la ricostruzione dell’ambiente dell’Oasi. Essa era, in origine, un grande campo per l’agricoltura industriale, privo di alberi. Vi operammo per anni, scavammo stagni e ruscelli, piantammo boschi, creammo paludi e prati. Perdonateci un po’’ di orgoglio, ma il risultato è stato spettacolare. Migliaia di coppie di uccelli selvatici scelgono, ogni primavera, di nidificare nell’Oasi. Ancora oggi, tutti gli anni, una specie nuova, o più di una, si aggiunge alla lista; anche se forse non sarà facile provare di nuovo l’emozione di assistere alla nostra prima nidificazione coloniale di Aironi, nel 1992, con 130 nidi, oggi giunta a superare i trecento (e anche cinquecento negli anni umidi). In tarda primavera, quando in meno di mezzo ettaro si possono ammirare forse duemila Aironi, intenti alle loro faccende, la mente corre ai grandi spettacoli naturali delle paludi d’Africa.